«Lo vedi? Questo era un magazzino. Ora è la mia casa. Da cui spero di non andarmene più».
Quartiere Brancaccio, Palermo: Carola vive qui con Rosolino, da cui ha avuto tre figli: Nunzio, 8 anni, Andrea, 3 e Julian, 1. Abitano in una tra le aree più difficili della città, loro cinque e – temporaneamente – la mamma di Rosolino, la sorella e la nipotina. Insieme, in due stanze e un bagno ristrutturati a tempo di record.
Carola racconta la sua storia con una precisione che colpisce. Date, giorni, luoghi: ricorda ogni dettaglio, ogni particolare. Parla, gesticola, si alza e si siede e si rialza da una delle sedie che circondano il piccolo tavolo che con un divano, un fornello, un lavandino e un gigantesco televisore arredano la camera nella quale si entra direttamente dalla strada.
Due ore senza mai prendere fiato. È il tempo che Carola impiega a snocciolare i passaggi della sua esistenza, un giro di giostra, una serie di alti e bassi che ha affrontato con un coraggio non comune. Fino all’incontro con L’Albero della Vita, che quell’esistenza è riuscita finalmente a migliorare.
Famiglia di origine numerosa, tre fratelli e due sorelle, «finché c’è stato mio padre, mastro carpentiere prima e ambulante poi, non abbiamo avuto problemi. O almeno, quelli che c’erano riuscivamo a superarli. Poi un incidente stradale ci ha portato via papà a 42 anni».
Carola allora di anni ne ha 21 e sta seguendo un corso di taglio e cucito: «Volevo fare la stilista, viaggiare, sognavo Parigi e l’America. Devo smettere e trovarmi un lavoro in un’impresa di pulizie».
Poi: «Ho degli amici, esco, ma la mia vita è inutile. E faticosa. L’ultimo dei miei fratelli ha appena 4 anni e in famiglia non c’è niente, neppure il latte e il pane. Nessuno ci aiuta, mia madre cardiopatica lava le scale nei condomini per mantenerci. Quando incontro mio marito è come incontrare un angelo custode».
Accade dieci anni fa: Carola elenca i giorni e le date e anche le ore.
«Rosolino, ragazzo napoletano che lavora con mio zio. Insieme trasportano merce dalla Sicilia alla Campania. Un amico mi dà il suo numero di telefono e io comincio a mandargli messaggi anonimi, mi firmo “la tua ammiratrice”. Fino a quando un sms arriva anche a me: “So chi sei”. L’8 novembre sulla spiaggia di Mondello si dichiara. L’8 dicembre vado a Napoli a conoscere la sua famiglia. Il giorno dopo viviamo insieme nella sua casa di Palermo».
Carola lascia il lavoro per occuparsi di Rosolino. E affronta una serie di difficoltà che hanno dell’incredibile. Diagnosi sbagliate («Secondo i medici avevo un tumore all’utero che non c’era») e soprattutto la prima gravidanza («Mi dissero che il bambino era down e malformato. Io risposi che sarebbe nato comunque. Nunzio è venuto alla luce sanissimo: è stato Dio che mi ha premiato»).
La giovane famiglia non se la passa male. Rosolino ha un contratto con le Ferrovie dello Stato, poi un altro con Fincantieri. «Uno stipendio, e anche gli assegni per il bambino. Cambiamo casa, la arrediamo, compriamo un’auto, battezzo mio figlio. Tutto a posto. Fino a quando il lavoro alla Fincantieri finisce. E comincia il nostro periodo buio, il “brutto percorso”».
Rosolino trova solo impieghi saltuari, «qualche giorno come muratore, altri a vendere indumenti cinesi. Il proprietario ha bisogno della casa e ci manda via. Noi non abbiamo un soldo. Così occupiamo una casa qui al Brancaccio, una di quelle sequestrate dalle banche. Concordiamo un affitto di 200 euro al mese. Poi mi ammalo, e Rosolino per comprare il latte al bambino “prende” un po’ di rame alle Ferrovie per venderlo. Ma i poliziotti prendono lui. Esce dopo 4 giorni di arresti domiciliari e si arrangia a fare tutto, porta a casa a volte 20 euro, a volte 10, io rimango incinta».
La situazione si complica. Come dice Carola «cadiamo sempre più giù. Smettiamo di pagare l’affitto. I bambini del quartiere mangiano il gelato e mio figlio li guarda, perché non abbiamo un euro per comprarglielo. Rosolino si tormenta, perché non riesce a mantenerci. Una sera andiamo a letto digiuni. Nasce Andrea e un po’ ci rimettiamo come morale. Io lo allatto dieci mesi così da non dover spendere per il latte. Gli omogeneizzati li avevo comprati uno per volta durante la gravidanza e messi da parte. Quando arriva il momento di svezzarlo ne ho una buona scorta. Resto di nuovo incinta». Di un bambino che Carola non vuole.
«Piango, non ho due euro per comprare il pane, non so più cosa fare. Non lo voglio quel terzo figlio. Decidiamo di trasferirci a Napoli, a casa dei miei suoceri. Lì Rosolino trova un lavoro. Non è un lavoro “lecito”. No, niente a che fare con la droga. Commercia indumenti contraffatti. Qualcosa guadagna, dopo cinque mesi affittiamo un alloggio, partorisco Julian che ha problemi al cuore: quando lo vedo gli chiedo perdono per non averlo voluto».
Siamo a poco più di un anno fa, Julian guarisce ma il suocero muore. Un lutto che manda in pezzi i rapporti famigliari. Rosolino litiga con la madre e la sorella, si rifiuta di vedere la nipotina neonata, vuole rientrare a Palermo perché «è brutto che i miei figli possano un giorno vedere il padre in arresto o ammazzato». Carola si oppone ma non c’è niente da fare. La famiglia torna in Sicilia, al Brancaccio, dove occupa un’altra casa. «Amici ci trovano qualche mobile. Rosolino non lavora. Ricominciamo da sottozero».
E’ durante quel sottozero, «quando non ho un soldo per il latte da dare a Julian» che nella vita di Carola e della sua famiglia entra L’Albero della Vita. Li mette in contatto l’associazione partner Centro di Accoglienza Padre Nostro. «Conosco Serena Fleres e Rita Purrazzella impegnate nel progetto Varcare La Soglia. Grazie a loro cambio, non piango più ma imparo ad affrontare le cose. Anche a risolverle. No, non è il buono per la spesa che mi danno una volta al mese a essere determinante. E’ soprattutto l’aiuto psicologico. Insieme discutiamo il problema della casa. Insieme troviamo un lavoro a Rosolino che comincia ad aiutare il cugino in una pescheria. Anche la parrocchia ci dà una mano».
Carola impara due cose importanti. Non è una vergogna essere poveri. E con l’aiuto giusto ce la si può fare.
«A novembre dobbiamo lasciare la casa che avevamo occupato. Andiamo a vivere da mia mamma, perché se occupi una casa per una terza volta gli assistenti sociali intervengono con i bambini e io non voglio correre il rischio. Siamo in 14 in due stanze: noi cinque, mia madre, mio fratello con la moglie e tre bambini, un altro fratello con la compagna incinta di due gemelli e una figlia. Litighiamo».
La soluzione può essere un magazzino di proprietà di una zia. Due stanze, un rubinetto, una serranda. «Ma anche con mia zia i rapporti sono tesi, non ci parlo. Serena e Rita mi convincono e mi aiutano, anzi aiutano entrambi, a ricomporre i rapporti famigliari. Poco per volta mio marito riprende a parlare con sua madre e sua sorella. E un giorno io mi presento da mia zia e le dico: o mi dai il magazzino, che può diventare una casa abitabile, o vado a cercarne un altro».
La zia dice sì. «Il 26 gennaio siamo qui dentro. Per scaldare l’acqua uso una lavatrice, poi lavo i miei bambini nel lavandino. Fa tanto freddo. Quando piove entra l’acqua, noi la spaliamo fuori e asciughiamo».
A fine maggio iniziano i lavori, «viviamo in casa con i muratori mentre alzano le pareti, fino a che un giorno dobbiamo uscire per forza. Un’amica mi presta un alloggio dove arriva anche mia suocera. Il 10 luglio siano di nuovo qui, in questa che ora è una casa e non più un magazzino».
Ed è una vita nuova: «Mio marito lavora, ho i miei tre bambini e accanto a me le operatrici de L’Albero della Vita che non mi lasciano sola. Grazie a loro ho fatto richiesta e ottenuto il Sia, “sostegno per l’inclusione” e l’assegno per le famiglie che hanno tre figli minori. I rapporti con la mia famiglia sono buoni, e così quelli di mio marito con la sua». Ti manca ancora qualcosa, le chiedo. «No» risponde. «Oggi ho tutto».
Storia a cura di Monica Triglia.
Fotografie di Valentina Tamborra, per il progetto “POVERI NOI – IL RACCONTO DI UN’ITALIA CHE NON SI ARRENDE”, anno 2018.