Mi chiamo Babu e ho 2 settimane.
Sono nato nella contea del Samburu il 18 di giugno, a sole 23 settimane di gestazione. Sono venuto al mondo in un corpo di appena 460 grammi. Troppo pochi per poter sopravvivere, dicevano le infermiere.
La mia mamma Farai, contrariamente a tante donne che si trovano qui all’ospedale di Maralal, non è giovanissima: ha 29 anni e io sono il 5 figlio. Io e mia sorella Hasana siamo gli unici nati in ospedale, gli altri tre miei fratelli, come i miei genitori sono nati nel villaggio con l’assistenza delle donne del mio villaggio.
Mio padre ha altri figli con un’altra donna; nella nostra società, infatti è consentita la poligamia e ogni famiglia possiede tante capanne quante sono le mogli di un uomo. Per noi è normale essere in tanti.
Due giorni prima che nascessi, mia mamma si è messa in cammino verso l’ospedale di Maralal da sola, affrontando un viaggio molto lungo e pericoloso in condizioni davvero gravose. Aveva molti dolori e sapeva che, recarsi all’ospedale, poteva rappresentare la sola possibilità di avere un parto assistito e dell’aiuto per me, in caso di bisogno. E in effetti di bisogno ce n’è stato, perché se non fossi nato all’interno di questa struttura, probabilmente oggi non sarei qui a raccontarvi queste cose. È proprio vero che le mamme sanno capire le necessità dei propri figli.
L’ostetrica e il medico, sentivo che dicevano che è a causa della pratica dell’MGF subita che mia mamma ha avuto così tanti problemi durante la gravidanza: le infezioni batteriche vaginali e le emorragie costanti l’hanno portata a un parto prematuro.
La mia nascita è avvenuta in “compagnia”. Mentre venivo al mondo, sul lettino accanto a quello di mia mamma nasceva un altro bambino. Lui però è più forte di me, perché pesa già 3 kg: forse perché la sua mamma ha soli 14 anni e ha più energia. Tra pochi giorni potrà ritornare al suo villaggio.
L’infermiera Nadra ha assistito in contemporanea a entrambe le nascite ed è stata molto brava a gestire la situazione da sola. Ogni mese qui nascono 120 bambini e purtroppo il tasso di mortalità è molto alto, non tutti sopravvivono. Spesso c’è carenza di personale per gestire al meglio il reparto.
In tutto il mondo i parti pretermine rappresentano l’11% di tutte le nascite. Se nasci in Samburu le possibilità di sopravvivenza sono davvero basse.
Ora mi trovo in un macchinario tutto bianco, un’incubatrice prenatale, e all’interno c’è lo stesso tepore di quando ero nella pancia della mia mamma. Il momento migliore però è quando la mia mamma mi prende tra le sue braccia, mi accarezza e mi fa dei massaggi cantandomi delle canzoni in swahili: lì so che non sono da solo a combattere, come avviene nelle nostre tribù.
Dicono che sarà una battaglia dura per me: le condizioni igieniche che ci sono qui sono al limite. L’impatto che le hanno le infezioni ospedaliere sui processi di cura e di assistenza al neonato, soprattutto se affetto da patologia o se gravemente prematuro come me, possono essere letali.
Il periodo di transizione, che porta i piccoli come me a lasciare la protezione naturale dell’utero materno verso un ambiente contaminato, è brusco e ci espone ad essere colonizzati da microrganismi per i quali al momento non possiedo né mezzi di difesa di tipo immunitario, né di tipo “antagonistico”.
I medici dicono che la sorgente d’infezione principale è rappresentata, dalle mani della mia mamma e dai visitatori che rappresentano generalmente sorgente e via di trasmissione più frequente; anche l’aria, l’acqua, gli alimenti, gli oggetti di uso comune e le superfici presenti nella nostra incubatrice, giocano un ruolo determinante nella diffusione di microrganismi potenzialmente pericolosi per noi bambini prematuri. Io ho ancora il moncone ombelicale che a tutti gli effetti rappresenta una ferita ancora aperta e mi espone maggiormente a rischi di contaminazione.
Per questo è fondamentale, per la nostra sopravvivenza, una pulizia di tutti i componenti della campana che mi protegge, del materassino e del piano materassino che andrebbero ricambiati quotidianamente perché potrebbero risultare inquinati di feci e latte.
Ma noi neonati prematuri del Samburu non abbiamo tutto questo, non possiamo contare su tutte queste cure: chiunque entra nelle nostre stanze, senza prestare particolare attenzione agli aspetti igienici; la nostra incubatrice non è sterile perché non abbiamo dei materassini ma siamo adagiati sulle nostre tipiche coperte da guerriero. Oggi sono il nostro materassino, fino a pochi giorni fa venivano indossate dalle nostre mamme per ripararsi, quando usciremo di qui saranno la nostra culla. Ma dicono che questo non va bene, perché il nostro sistema immunitario è inefficace e immaturo; così come i nostri polmoni ed i tessuti delle vie aeree. Per sopravvivere abbiamo bisogno di ambienti sterili e di venire a contatto con materiali puliti.
È molto complicato. Lo capisco dallo sguardo di mia mamma a tratti preoccupato. Ma queste sono preoccupazioni dei grandi. Io so già di appartenere a un popolo di guerrieri e di essere un bambino fortissimo con tanta voglia di vivere.
Aiuta anche tu Babu a combattere questa sfida per la sopravvivenza.
*il contesto è reale. I nomi di questa storia non corrispondono al vero.