di Monica Triglia GIOIA 26 Apr 2018

Nella tragica epopea dei migranti, le madri che viaggiano sole con i figli sono forse i soggetti più deboli, ma non sempre il loro percorso è più protetto. Questa è la storia di come Affoussiata ha salvato dall’infibulazione Dudu, quattro anni, salendo su un barcone. E di come la loro vita sta ricominciando in Italia.

Sono sempre meno i migranti che approdano sulle coste italiane. Dicono i dati del ministero degli Interni che nei primi tre mesi di quest’anno ne sono arrivati 6.161, un numero inferiore del 74 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017 (erano stati 23.549) e del 65 per cento su quello del 2016 (17.945). Un calo dovuto in gran parte all’accordo del Governo italiano con la Libia, provvedimento controverso che raccoglie consensi per i risultati ottenuti ma anche critiche da parte di molte organizzazioni umanitarie, per le condizioni disumane dei centri di detenzione libici dove i migranti vengono rinchiusi per impedire loro di partire.

Dai Paesi in guerra o devastati dalla povertà si continua però a scappare. Nel mondo rifugiati e richiedenti asilo sono più di 65 milioni, come denuncia il rapporto appena pubblicato dal Centro Astalli, ramo italiano del Servizio dei gesuiti per i rifugiati. Ma non ci sono dati certi su chi tenta di attraversare deserti per raggiungere il mare e in quei deserti muore di fame e sete, di fatica e violenza. Su chi viaggia mesi o anche anni in condizioni disperate e, arrivato sulle coste libiche, è rinchiuso in carceri lager. Su chi riesce a imbarcarsi ma non a entrare nelle acque internazionali dove le ong ancora operano e, bloccato dalla Guardia costiera libica, è riportato indietro. Mentre sono solo stime quelle che contano chi si perde in mare per sempre: dice l’Oim, l’Organizzazione dell’Onu per le migrazioni, che dall’inizio dell’anno e fino al 13 aprile, sulla rotta del Mediterraneo centrale sono annegate “almeno” 359 persone.

È una lotteria quella che decide la sorte della gran parte dei migranti: tu ce la farai, tu invece no.

Affoussiata arriva dalla Costa d’Avorio e quella lotteria l’ha vinta, per fortuna e per la forza straordinaria che l’ha portata, sola con la sua bambina, a raggiungere l’Italia dopo aver superato ostacoli inimmaginabili. Nell’epopea di disperazione che riguarda tutti i migranti, le donne sole con figli sono i soggetti deboli per eccellenza, ma troppo spesso, in pratica, un’accoglienza specifica per loro non ci sarebbe se non ci fossero interventi realizzati da associazioni come L’Albero della vita che, a Milano, ha trasformato un ex collegio nel progetto Faro in città: 21 alloggi per ospitare famiglie, ma soprattutto mamme (e zie e nonne) che arrivano sole con i loro bambini. Affoussiata racconta la sua storia seduta in uno di questi appartamenti dove vive oggi con Aminata, detta Dudu, la sua bimba di quattro anni. Un letto grande, due sedie, giocattoli sparsi qua e là sono la sua casa, tanto diversa e tanto lontana da quella lasciata nel villaggio nei pressi di Aboisso.

Affoussiata ha 41 anni e uno sguardo che dice più delle parole. «Sono stata infibulata da bambina», spiega alternando italiano e francese. «E a 16 anni costretta a sposare Lucien, che non si è mai occupato di me e dei quattro figli che sono venuti. Ho sempre lavorato per mantenere tutti». Faceva la cuoca: «Mi alzavo all’alba, cucinavo, vendevo il cibo al mercato». Una vita dura. «Ma sopportavo, per i miei figli». Per Dudu e gli altri che ha lasciato in Costa d’Avorio: la primogenita Zeinab, 22 anni, e i due ragazzi,

Avevo pochi soldi, ho dovuto scegliere. Ho portato lei, gli altri figli sono in Africa

Adam, 16, e Ibrahim, 14. In un Paese dove per le donne opporsi alla volontà dei mariti è ancora molto difficile, Affoussiata ha resistito a Lucien, che voleva far infibulare le figlie femmine e impedire ai figli di andare a scuola. Su come ce l’abbia fatta lei si limita a dire: «Era giusto così». Due anni fa Lucien è morto. «Volevano obbligarmi a sposare il fratello. Ho deciso di fuggire. Con i miei figli mi sono rifugiata a casa di una amica in città, ad Abidjan. Da qui, per paura che i miei parenti mi trovassero, una notte sono scappata, senza dire nulla a nessuno. Avevo pochi soldi, ho dovuto scegliere. Ho portato con me solo Dudu».

Affoussiata parla poco, spesso risponde solo con un sì o con un no. Ci guarda con diffidenza, quasi con timore. Lei, che non è mai andata a scuola, che è segnata dalla fatica, è fuggita sì dalla povertà ma soprattutto dalla sottomissione, rischiando la vita nel difendere le figlie dalla pratica odiosa dell’infibulazione, nel battersi perché i figli studiassero. Affoussiata, protagonista di una rivoluzione solitaria che nessuno celebrerà mai, impiega sette mesi ad attraversare «su un camion, insieme a tanti altri» il Burkina Faso, il Niger, la Libia fino a Sabrata, dove per settimane vive per strada, nascondendosi ai banditi, dormendo in spiaggia.

Poi «un uomo ci ha trovato posto su un’imbarcazione diretta in Italia». Nega di aver pagato per la traversata, anche se si sa che nessun scafista ti fa partire se non hai soldi, anche se si sa che chi non paga subisce violenze, soprattutto se è una donna sola. Affoussiata stringe le labbra. Quel giorno, dice, lei che ha paura del mare è salita sul barcone tenendo stretta Dudu: «Qui sul mio seno, senza mai muovermi», e prende in braccio la bambina per far vedere come ha passato quella notte, su quella barca con altri 140 disperati, che va in avaria in mezzo al Mediterraneo ma è soccorsa da un’imbarcazione della Croce Rossa italiana. «Un segno di Dio. Quando ero piccola nel mio villaggio c’erano delle suore italiane. Le sentivo esclamare “mammamia!”. Sapevo che nella vita avrei avuto a che fare con l’Italia».

Affoussiata sbarca a Catania. È salva ma è spaventata, come può esserlo una donna sola con la sua bimba in un Paese straniero. Nell’hotspot dove viene portata fa domanda di asilo. Poi via su un bus, fino ad arrivare a Milano, al progetto Faro in città. È il 29 gennaio 2017: «Quel giorno è iniziata la nostra nuova vita». È passato più di un anno da allora: Affoussiata studia italiano, ha fatto amicizia con altre donne della struttura, ha avuto il suo primo colloquio di lavoro per un posto di cuoca e dice: «Milano è bella perché è accogliente». Quasi ogni sera si collega via Internet con i figli in Costa d’Avorio:

«Zeinab si è diplomata, Ibrahim sta studiando, Adam fa il falegname»

A Milano Dudu va alla scuola dell’infanzia. La domanda di asilo è stata accolta e tra qualche settimana mamma e figlia si trasferiranno in una palazzina più piccola. Affoussiata, che non ha mai sorriso durante il nostro incontro, ora lo fa parlando del suo sogno: «Aprire un ristorante dove cucinare i piatti della mia Costa d’Avorio». In corridoio Dudu e altri bambini corrono e giocano. Quando le dico che è stata straordinaria, Affoussiata scuote la testa: «L’ho fatto solo perché i miei figli possano avere una vita migliore». G

«Nel mio villaggio c’erano delle suore italiane. Da piccola sapevo che nella mia vita avrei avuto a che fare con l’Italia»