Reddito di Cittadinanza: stiamo forse sprecando una grande occasione di interrompere realmente il circuito della povertà? Minori e famiglie non devono essere considerati meramente portatori passivi di bisogni?

È da pochi giorni entrata in vigore una nuova misura sociale, il Reddito di Cittadinanza (RdC), la cui disciplina è dettata dal Decreto Legge n. 4 del 2019.

Indubbiamente siamo di fronte a un grande investimento sulla povertà, il più importante messo in atto in materia, con uno stanziamento di circa 7 miliardi l’anno: il provvedimento è destinato pertanto a incidere profondamente nelle vite delle persone in difficoltà, senza però di fatto contrastare realmente la povertà più cronicizzata del nostro Paese, diventata ormai una vera emergenza.

In qualità di organizzazione che opera nel campo del contrasto alla povertà da molti anni, abbiamo ritenuto fondamentale dare un nostro contributo per la definizione del funzionamento del RdC, con l’obiettivo di renderlo il più efficace possibile nel cambiamento della condizione di disagio sociale in cui versano moltissime famiglie e, purtroppo, moltissimi bambini (ricordiamo che gli ultimi dati Istat riferiti al 2017 riportano oltre cinque milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà di cui 243mila bambini sotto i tre anni).

Abbiamo per questo consegnato un nostro documento in audizione al Senato e lavorato con Alleanza Contro la Povertà per proporre delle modifiche al testo che potessero superare le nostre principali preoccupazioni, legate soprattutto ai minori e alle famiglie che vivono in povertà assoluta. Alcune sono state recepite, altre invece rimangono una grave mancanza a questo strumento che perde così l’occasione di incidere realmente sulla vita dei tanti bambini che vivono in povertà.

  • La scala di equivalenza, per misurare i redditi e per determinare l’entità del sussidio, rimane fortemente penalizzante per le famiglie numerose e in particolare per quelle con figli minori, vale a dire quelle più colpite negli anni scorsi dalla crisi economica e dall’inadeguatezza del nostro sistema di welfare. Viene infatti attribuito un peso doppio agli adulti rispetto ai bambini (coefficiente 0,4 a fronte di 0,2), il tetto oltre il quale non si prevedono risorse aggiuntive è molto basso (2,1) e il contributo per l’affitto è fisso, senza relazione con la numerosità del nucleo familiare.
  • Nelle audizioni parlamentari, Istat e Inps hanno teorizzato una copertura di circa 2,5 milioni di persone, a fronte dei 3,5 milioni previsti nella relazione tecnica del provvedimento; nelle loro proiezioni, inoltre, risulta che i nuclei familiari composti da una sola persona costituiranno circa la metà dei destinatari. Questo quadro, insieme all’esclusione dei nuclei familiari di stranieri, anche con permesso di lungo soggiorno, se non residenti in Italia da 10 anni e non in possesso di documentazione rilasciata dai paesi d’origine di difficile reperimento, ci indica che a fronte di un ingente stanziamento di risorse, difficilmente aumentabile, potranno essere molti i bambini in povertà assoluta residenti in Italia che rimarranno del tutto esclusi dalla misura. Purtroppo questo meccanismo è rimasto immutato e solo i dati effettivi ci daranno il quadro reale dell’entità degli esclusi. Non focalizzare l’attenzione sui minori vuol dire non portare lo sguardo alle generazioni future, facilitando la perpetuazione della povertà di generazione in generazione, con ricadute negative sul Paese in ambito lavorativo, formativo e scolastico e sanitario.
  • L’impianto della misura ha al centro l’inserimento lavorativo, invece della valutazione multidimensionale che era alla base della “Linee guida per la predisposizione e attuazione dei progetti di presa in carico del Sostegno per l’Inclusione Attiva” e delle successive “Linee guida per la definizione degli strumenti operativi per la valutazione multidimensionale e per la definizione dei progetti personalizzati”, riferimenti per l’attuazione del Reddito di Inclusione e in generale di tutti gli interventi territoriali basati sulla presa in carico multidimensionale delle famiglie e delle persone. Il RdC mantiene in vigore i percorsi previsti dal Rei, riservandoli tuttavia solo a una parte dei beneficiari: la scelta è basata su criteri relativi alla condizione occupazionale degli adulti, avviando direttamente ai Centri per l’Impiego coloro che non hanno una situazione di disoccupazione di lungo periodo. Le modifiche apportate nella discussione alla Camera sono positive perché ampliano la platea dei nuclei familiari che potranno avere una valutazione da parte di operatori professionisti dei servizi sociali, a cominciare da coloro che hanno già sottoscritto un progetto personalizzato in quanto beneficiari del Rei. Inoltre, sono state inserite norme che rafforzano la collaborazione tra Cpi e servizi sociali comunali, così da non escludere definitivamente dai percorsi di inclusione coloro che in via iniziale verranno inviati ai Cpi. Nonostante le modifiche, resta la criticità relativa a un’altra parte dei beneficiari, individuati sulla base di criteri prestabiliti dalla legge (minorenni, già occupati, già iscritti a regolari corsi di studi, disabili e caregivers di minorenni di età inferiore a 3 anni o persone con disabilità grave o non autosufficienti) che sarà esentata giustamente dagli obblighi del Patto per il lavoro, ma che dovrebbero invece poter avere accesso ai percorsi di inclusione progettati dai Servizi Sociali.
  • Obblighi di accettazione di proposte di lavoro limitate a un raggio di 250 chilometri di distanza per i primi 24 mesi nel caso di nuclei familiari con figli minorenni: è stata una modifica recepita positivamente, che evita così temporaneamente l’obbligo di trasferimento su tutto il territorio nazionale, anche se la distanza rimane ancora elevata e può ancora avere ricadute significative sui percorsi educativi e di istruzione dei minorenni.

Da Ente che si occupa di questa tematica, riteniamo che si debba riprendere il lavoro sull’inclusione attiva, avviato con il Rei ma in buona parte ancora disatteso nella sua concretezza; l’incertezza sui cambiamenti che sarebbero stati introdotti con il RdC ha inevitabilmente comportato un periodo di sospensione anche da parte degli enti locali. È tempo di metterci nelle condizioni di affrontare in modo efficace il tema di come la condizione di povertà non solo possa essere alleviata, ma anche di come possa essere interrotta e soprattutto non trasmessa per via generazionale.

Da molto tempo l’Unione Europea incoraggia gli Stati Membri ad adottare obiettivi nazionali di riduzione della povertà infantile e dell’esclusione sociale e ovunque si è ormai affermata la consapevolezza che, per debellare la povertà nel lungo termine, la priorità debba essere data ai bambini e alle loro famiglie, attraverso misure di sostegno al reddito ma anche di aiuto per quanto riguarda l’alimentazione, i servizi educativi, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, gli alloggi, i trasporti e le attività sportive e socioculturali.

E’ dunque indispensabile che il contrasto alla povertà si basi su strategie integrate che possano sostanziarsi non solo nell’erogazione di sussidi, ma in un sistema di misure coordinate basate sull’idea che le persone non siano portatori passivi di bisogni, ma abbiano capacità e risorse indispensabili per la fuoriuscita dalla condizione di povertà. Anche i bambini, seppure con i limiti legati alla loro età, sono in grado di contribuire all’uscita dalla propria condizione di deprivazione materiale e sociale, se inseriti in adeguati percorsi educativi in grado di rafforzare la loro consapevolezza e capacità di agire, due aspetti fondamentali per poter affrontare la vita da adulti.